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INTERVENTO DEL VICEPRESIDENTE DELLA PROVINCIA ANDREA BARDUCCI AL CONVEGNO "DELOCALIZAZZIONE PRODUTTIVA. DA PROBLEMA AD OPPORTUNITA'"
Firenze, Aula Magna della Scuola di Guerra Aerea, 27 gennaio 2006

L'intervento del vicepresidente della Provincia di Firenze Andrea Barducci al convegno sulla Delocalizzazione

Per una politica che sappia coniugare crescita e giustizia sociale.

L’Amministrazione Provinciale di Firenze, che valuta con preoccupazione le conseguenze che l’aspra competizione internazionale determina nel tessuto produttivo dell’area fiorentina, con l’odierno Convegno si pone l’obiettivo di far maturare ad ogni livello di governo delle risposte che, al di là delle competenze formali, possano contribuire ad individuare obiettivi condivisi ed a creare relazioni sistematiche tra gli attori sociali.

La nostra preoccupazione prevalente è quella legata alla restrizione della base produttiva ed alla conseguente perdita di posti di lavoro ma tale sentimento, pur condivisibile, non è sufficiente a sviluppare quel clima di consapevolezza e di forte risposta che è necessario per poter reagire e porre in essere politiche in grado di contrastare non soltanto questa o quella delocalizzazione ma la perdita di competitività dell’area fiorentina.
Se ciò è vero, assume particolare valore –ci torneremo più avanti- il percorso del “Patto per lo sviluppo”, attivato nella nostra realtà, e i contenuti della Conferenza economica del Comune di Firenze, incentrate sul nesso cultura-rilancio nuovo sviluppo.
Naturalmente noi ci sentiamo profondamente impegnati ad affrontare tutte le vertenze che sono in atto nella nostra realtà e che propongono i più diversi scenari che vanno da ristrutturazioni aziendali che comportano riduzioni anche significative di personale ma sostenute da piani industriali credibili, fino a forme di disimpegno dell’imprenditoria che sembra preludere ad un vero e proprio abbandono del mercato.
E’ evidente che il mutamento del mercato del lavoro e delle sue regole pone problemi nuovi e complessi agli attori sociali ma il confronto diventa lacerante e senza sbocchi se l’nterlocutore, vuol rinunciare al suo ruolo di imprenditore.
Alcuni paesi europei hanno attraversato questa fase prima di noi, soprattutto nei settori produttivi cosiddetti maturi, dal tessile all’acciaio, all’automobile, alla chimica, agli elettrodomestici.
A partire dai primi anni 80 si sono realizzati radicali processi di riorganizzazione produttiva che hanno ridisegnato interi territori ed intere città di lunga tradizione industriale, i costi sociali sono stati molto alti e proprio nel momento in cui sarebbero stati necessari degli efficienti sistemi di protezione sociale le politiche di welfare sono state messe in discussione non solo nei loro presupposti materiali ma anche ideologici.

E’ stato il caso dell’Inghilterra dei primi anni 80 che, con modalità non sempre condivisibili e con alti costi sociali, ha tuttavia impegnato un’intera classe dirigente verso soluzioni che hanno portato a riposizionare l’economia inglese nella nuova divisione internazionale del lavoro confermando Londra non solo come uno dei più importanti centri finanziari del mondo ma come uno dei luoghi in cui si concentrano alcuni dei centri decisionali dell’economia globalizzata, meritandosi così l’appellativo di città globale, per usare la terminologia della studiosa Saskia Sassen.

Ormai da più di venti anni buona parte dell’Europa deve fare i conti con alti livelli di disoccupazione e di fronte a questo fenomeno sconvolgente sembra esserci acquiescenza e rassegnazione con una sottovalutazione colpevole delle conseguenze sociali di una mancata politica per lo sviluppo dell’occupazione.
Le terapie che vengono proposte sono incentrate quasi tutte sull’ innovazione, sullo sviluppo tecnologico e su forme di aggiornamento professionale più sensibili alle esigenze del mercato, come se queste pratiche, per altro necessarie, potessero da sole fornire delle risposte sufficienti e non fossero a loro volta causa di ulteriori processi di selezione.
Il modello di produzione fordista è stato nonostante tutto un modello che ha ridistribuito reddito come mai prima e ciò non solo per sua intrinseca natura, quanto per il tipo di relazioni sociali e industriali che nelle varie realtà sono state messe in essere grazie alle lotte operaie ed al ruolo delle forze politiche riformiste.
Il modello postindustriale, se così lo si vuole chiamare, nonostante le grandi potenzialità che sta esprimendo determina, come non mai, forti concentrazioni di ricchezza ed esclude ampi strati sociali relegandoli talvolta in condizioni di vita intollerabili o che contrastano, in modo stridente, con le promesse diffuse ogni giorno dai mezzi di comunicazione di massa.

La povertà non coincide più soltanto con la disoccupazione o con l’incapacità di svolgere una vita pienamente lavorativa ma riguarda categorie non trascurabili di lavoratori relegati ad attività a basso contenuto professionale che non sono soltanto il retaggio di forme superate di produzione ma sono l’altra faccia del modello postindustriale e degli stili di vita dei gruppi sociali che fanno del consumo ostentativo una pratica di vita.
Ed infatti nel paese più ricco del mondo, gli Stati Uniti, è stato coniato il termine di “working poor” per coloro che, pur occupati in lavori relativamente stabili, non riescono a garantire a sé ed alle proprie famiglie un livello di vita accettabile.

Se da un lato si devono superare le rigidità che ostacolano la crescita dell’economia bisogna rendersi conto che la flessibilità del lavoro ed in particolare il suo uso perverso comportano un aumento della insicurezza dei lavoratori che non può non prevedere nuove forme di protezione sociale.
Lo stato sociale, affermava tempo fa in un suo intervento Giuliano Amato, citando l’economista inglese Nicholas Barr, va riorganizzato, non abbattuto, va riorientato per combattere i rischi del XXI secolo.
Se qualcuno pensa che con la disoccupazione ci si possa, in qualche modo, convivere, non immagini una società né coesa né pacifica e non creda, per fare un riferimento a fatti recenti, che la rivolta delle banlieues di Parigi e della Francia sia qualcosa che non ci riguarda.
In ogni epoca storica le città sono state caratterizzate da quartieri ricchi e poveri ma la segregazione subentra soltanto nel momento in cui la mobilità tra realtà diverse diventa quasi impossibile.

La risposta va cercata in una politica economica di crescita e di piena occupazione che ormai, nell’epoca della globalizzazione, in cui il ruolo dei singoli stati si è fortemente indebolito se non annullato, non può che essere affrontata a livello europeo.La parola d’ordine delle politiche europee non può essere soltanto la riforma strutturale del mercato del lavoro perché in questo modo i consumi continueranno a calare con gli effetti che ben conosciamo.
Il processo di costruzione dell’Europa non può fermarsi a metà, l’integrazione dei mercati e le loro interdipendenze rendono ormai indispensabile un governo dell’Europa.

Jean Paul Fitoussi in un suo intervento sul giornale La Repubblica dell’ottobre scorso affermava che “l’Europa è oggi la sola regione geopolitica al mondo che non ha un governo proprio”, anzi, sottolineava, “applica come modo di governo la competizione tra gli Stati”.
L’Europa è la sola regione del mondo occidentale che da più di venti anni è caratterizzata da una disoccupazione di massa per cui risulta incomprensibile o meglio ingiustificabile che questo tema non assuma un adeguato peso nel dibattito politico europeo.

Bisogna essere consapevoli che la situazione economica in Europa presenta livelli di crescita insoddisfacenti e che l’Italia è ormai da tempo in una situazione di sostanziale stallo.
I riferimenti di tipo consolatorio che spesso fonti governative fanno alla situazione non rosea di Francia e Germania non regge in quanto, diversamente dai suddetti paesi, l’Italia non solo registra un’ inferiore crescita del PIL ma ha perso quote significative delle sue esportazioni, ha praticamente visto la scomparsa della grande industria e nel campo della ricerca non solo segna il passo ma registra un rapporto con il mondo della produzione incerto e discontinuo.
Le carenze non riguardano solo la ricerca pubblica e quella universitaria in particolare ma anche la ricerca privata e soprattutto la cronica insufficienza di risorse dedicate dalle imprese alla ricerca e allo sviluppo.

Se lo scarso orientamento dei giovani verso facoltà dell’area tecnico-scientifica è preoccupante e può in parte essere imputato a motivazioni di carattere culturale ed anche psicologico non si può certo nascondere che il mondo della piccola e media impresa, che ha caratterizzato la maggior parte delle aree produttive del paese, non ha manifestato concrete possibilità di occupazione per personale con titolo di studio elevato.

Se l’innovazione viene vista come una delle possibili strade attraverso la quale rilanciare la competitività delle imprese essa appare come una scelta indispensabile ma non facilmente perseguibile non solo per quanto detto sullo stato della ricerca ma anche per carenze legate alla formazione ed alla cultura dell’imprenditore medio ed alla dimensione delle aziende, il cosiddetto nanismo dell’apparato produttivo italiano .
E se non bastasse l’imprenditoria sta registrando un difficile processo di transizione generazionale che in Toscana si manifesta con particolare evidenza.

La situazione italiana quindi se in parte condivide i problemi che altri paesi europei devono affrontare ha anche, come abbiamo visto, una sua specificità negativa.
A ciò bisogna aggiungere che la consistente disponibilità di capitali non costituisce ancora un’opportunità per un rilancio dell’economia italiana sui mercati globali in quanto in molti casi il loro orientamento è verso la rendita e la speculazione finanziaria ed immobiliare.
Nella classifica delle aziende con la maggiore redditività non compaiono aziende produttrici ed esportatrici ma quelle attive nel settore bancario ed assicurativo, nell’immobiliare, nelle telecomunicazioni, nella produzione di energia, nelle gestioni autostradali.
Lo stesso sistema creditizio non appare, a quanto affermano sia esperti che imprenditori alla ricerca di risorse finanziarie per sostenere progetti innovativi, orientato e preparato per esperienze di “venture capital”.

Siamo cioè di fronte ad imprese la cui strategia industriale è quella di subordinare alla creazione di valore borsistico ogni altro interesse secondo un modello tipico del capitalismo contemporaneo che Luciano Gallino chiama “capitalismo manageriale azionario” .
Un capitalismo, afferma Gallino “ossessivamente orientato a cercare forme di rendita a breve termine privilegiando operazioni e architetture finanziarie piuttosto che realizzare utili con attività che generano valore aggiunto a lungo termine mediante la produzione di beni e servizi reali”.

La manodopera attiva nella produzione è in costante riduzione ed il maggiore dinamismo del terziario non solo non riesce a compensare le perdite del secondario ma ancor meno riesce a reimpiegare la manodopera espulsa dal mercato del lavoro.

Va anche detto che l’attuale sistema di welfare, per il modo in cui si è sviluppato, tende a proteggere la classe media ed in particolare quella che è più vicina allo Stato.
E’ quindi un sistema che va ristudiato non solo per adeguarlo alle reali possibilità di spesa ma per intercettare nuove priorità.
Quello che sto dicendo non sono certo cose nuove, le ripropongo perché ritengo che siamo giunti ad un punto in cui sottovalutare la gravità della situazione non porta alle necessarie assunzioni di responsabilità né tanto meno serve a garantire, a livello politico, la legittimazione ed il sostegno necessari per operare scelte difficili che non possono non comportare sacrifici per ampi settori della popolazione.
Gli enti locali si trovano oggi a dover operare su terreni nuovi in una fase caratterizzata da una forte spinta alla deindustrializzazione delle aree urbane, terreni diversi dal passato, in uno scenario più incerto di quello tipico della cosiddetta fase fordista, in quanto i fattori produttivi sono dotati di mobilità internazionale non controllabili dai poteri pubblici. Inoltre sul piano politico pesa la minore disponibilità di risorse, la frammentazione dei gruppi sociali e degli interessi organizzati e come pure pesa l’eredità di una cultura politica orientata più verso la ridistribuzione del reddito che verso la sua produzione.

La struttura delle istituzioni non può non essere coinvolta dagli stessi processi di riorganizzazione che stanno investendo ogni settore della società civile ma per rendere “la vita più semplice alle imprese” come giustamente sollecita il Presidente della Confindustria, da un lato bisogna far fare un salto di qualità alla politica ed a coloro che la praticano e ciò dal punto di vista culturale, etico e tenico-professionale, ma nello stesso tempo non si può credere che il controllo della spesa pubblica passi solo attraverso un semplice processo di sottrazione di risorse.
I governi locali sono oggi costretti ad operare in contesti ad alta competitività nei quali crescono rischi e poste in gioco.
Essi devono operare sia sul piano interno, nei confronti dei propri cittadini sia sul piano esterno, nei confronti degli altri territori concorrenti per creare un ambiente adatto a nuove forme di sviluppo .
Le politiche locali devono saper intercettare flussi di risorse, pubbliche e private, estremamente mobili e in continua ricerca delle condizioni più vantaggiose.

Ma se è vero che la politica deve saper abbandonare vecchie strade anche le élites economiche locali devono saper superare la logica degli interessi immediati e puntare su progetti di sviluppo coordinati ed a medio termine.
Il rapporto pubblico privato non può nascere soltanto quando la parte pubblica è in grado di realizzare investimenti consistenti o è disponibile a dare dei servizi in concessione.

Per questo insieme di ragioni siamo convinti della necessità di rilanciare con forza il patto di sviluppo e le esperienze di pianificazione strategica che stanno maturando. La redazione del masterplan come condizione delle realtà prioritarie scaturite dal processo concertativi.
Noi pensiamo che le legittime convenienze di parte devono essere valutate in un quadro più globale che deve contenere un’immagine condivisa di bene comune e questo vale per il mondo dell’economia come per quello della politica e delle alleanze che essa esprime.
A questo scopo abbiamo promosso la ricerca che viene presentata oggi, una ricerca che ha cercato di valutare il grado di internazionalizzazione raggiunto dal nostro sistema produttivo ma che si propone ancora di indagare sulla natura, la consistenza e gli effetti della delocalizzazione produttiva.
Se il punto in discussione fosse solo il differenziale sul costo del lavoro bisognerebbe ammettere che non c’è soluzione.
E’ invece nostra intenzione distinguere tra le diverse forme di delocalizzazione che si manifestano e quali possono essere gli effetti non solo a breve ma anche nel medio-lungo periodo.
Bisogna in questa sede ricordare che la delocalizzazione non sta avvenendo solo nei settori della produzione ma anche nei servizi, infatti l’offshoring, così viene chiamato, non è altro che la dislocazione all’estero di lavori tradizionalmente riservati ai colletti bianchi.
Il boom è oggi nei paesi dell’Est in cui il livello di scolarizzazione è a livello occidentale e la conoscenza delle lingue non costituisce un problema.
L’OCSE stima che nell’informatica, nella ricerca e nella consulenza in Europa il 30% dei posti è suscettibile di essere esportato.
Queste per ora sono stime, certamente discutibili, ma è un fatto che call centers, acquisizione dati e lettura ottica sono i tre settori nei quali si sta sviluppando l’offshoring italiano con costi inferiori del 40%.
Mentre Inghilterra e Stati Uniti stanno decentrando professionalità più elevate nel settore bancario, della finanza e della progettazione.
L’idea che la globalizzazione sfociasse in una divisione del lavoro fra un terzo mondo che lavora con le mani in officina e un occidente che si riserva i lavori di cervello a più alto valore aggiunto è già ampiamente sconfessata da quanto avviene in India, in Cina ed in Cecoslovacchia

L’internazionalizzazione delle attività produttive, sia attiva che passiva, si realizza, come sentiremo fra poco da chi ha la competenza per farlo, attraverso diverse modalità che implicano diversi gradi di coinvolgimento strategico ed economico delle imprese nei paesi nei quali decidono di operare ma nello stesso tempo ci sono effetti diretti ed indiretti sul sistema economico in cui l’azienda è nata o comunque opera.
Per quanto riguarda il primo aspetto si va dalla localizzazione di intere attività in cui il costo del lavoro è un elemento determinante per poter restare sul mercato, alla volontà di presidiare mercati ad elevato potenziale di sviluppo.
La prima ipotesi può portare ad un significativo indebolimento della presenza dell’impresa nel paese di origine mentre la seconda può determinare una domanda di servizi e di manodopera ad alto contenuto di specializzazione.

La delocalizzazione, come dicevo, genera effetti che vanno al di là dell’impresa per diffondersi sull’intero sistema, generando mutazioni nel processo di produzione di valore aggiunto, nella domanda quantitativa e qualitativa di lavoro e nella distribuzione del reddito.
Da qui scaturiscono precise indicazioni per chi come me è convinto che il sistema da solo non riuscirà a ridefinirsi e che è indispensabile uno stimolo politico come quello che più di cinquanta anni fa’ ci consentì di costruire la fase denominata “mercato sociale e welfare”.
Bisogna perciò operare sia sul fronte delle economie esterne sia su quello delle politiche sociali.
Per quanto riguarda le prime occorre agire sulle infrastrutture, sulla produzione e diffusione di tecnologie, sulle comunicazioni, sulla formazione, sull’efficienza del sistema politico ed amministrativo, sul credito e soprattutto stimolando le sue forme più innovative, sul nanismo delle imprese, sulla disponibilità di capitale di rischio.
Per quanto riguarda le politiche sociali bisogna far sì che l’alto livello di coesione sociale raggiunto nell’area fiorentina, grazie ad un sistema produttivo che aveva una forte capacità redistributiva, non venga seriamente compromesso dai livelli di competitività generati dalla nuova divisione internazionale del lavoro.

La Provincia di Firenze intende avviare un confronto con le parti sociali, sostenuto dallo studio dall’IRPET che oggi presentiamo e che consideriamo solo un primo passo, e in tal senso opereremo per creare un appuntamento annuale centrato su un Osservatorio capace di valutare le dinamiche economiche, le dinamiche sociali, lo stato dei servizi ed i fattori di criticità.
Abbiamo voluto partire dalla delocalizzazione industriale intesa sì come fattore di criticità ma anche come fattore da governare Vogliamo realizzare un quadro di conoscenze ed un tavolo di confronto indispensabili per poter costruire politiche efficaci.
La ricerca dell’Irpet prevede due fasi, la prima quella che viene presentata oggi e che ha analizzato gli investimenti diretti esteri (IDE) in entrata ed in uscita nella provincia di Firenze dal 1986 al 2004, e su questo punto la relazione del Professor Petretto ci consentirà di avviare una prima riflessione, la seconda, che ci impegniamo a realizzare, cercherà di valutare gli effetti dell’internazionalizzazione sul contesto locale.

I risultati della ricerca saranno oggi oggetto di discussione e di approfondimento, ma cercheremo di creare altre occasioni di confronto sul territorio e con altre realtà italiane perché la complessità del mondo contemporaneo non tollera più una politica che non sia fondata su una precisa conoscenza dei problemi che deve affrontare.
La seconda fase affronterà anche alcuni casi specifici per cogliere forme di delocalizzazione che non sono individuabili attraverso l’analisi dei dati ufficiali. Intendiamo condurre un costante confronto con le parti sociali per orientare le politiche pubbliche in atto e per poter delineare alcune iniziative specifiche nei settori della formazione, dell’informazione.e della diffusione di know how in rapporto con il mondo della produzione e con le università toscane.
Alle parti sociali chiediamo uno specifico ed autonomo apporto sui fenomeni in esame perché se quanto per ora emerge non è allarmante o per lo meno ci dice che siamo in tempo a mettere in atto delle strategie tese a ricollocare il nostro sistema produttivo nella nuova divisione internazionale del lavoro, resta il fatto che il numero complessivo degli addetti negli ultimi dieci anni è aumentato meno della media nazionale e che la struttura interna dell’occupazione si è modificata in modo sensibile con una perdita di importanza del comparto manifatturiero che è passato dal 31,2% al 26,4% degli addetti totali.
Se questi dati sull’occupazione vengono poi letti e confrontati con quelli relativi ai processi demografici tra i quali spicca l’invecchiamento della popolazione e l’aumento della dipendenza della popolazione inattiva da quella in attività lavorativa, non si può non essere preoccupati. Infatti se da un lato vediamo che aumentano i nuclei familiari unipersonali, talvolta portatori di problemi sociali nuovi che richiedono risorse aggiuntive non facilmente reperibili, dall’altro si vede che le giovani generazioni con buoni livelli di formazione e con voglia di competere sul mercato del lavoro sono costrette ad andarsene, indebolendo così le possibilità di rilancio del nostro sistema produttivo.

Quando ho detto che l’indagine dell’IRPET sembra se non indurci ad un certo ottimismo ma certamente a dirci che siamo in tempo a mettere in atto delle strategie di sostegno alle imprese e di rilancio della competitività del sistema produttivo dell’area fiorentina non volevo in alcun modo sminuire la necessità di intervenire rapidamente e con decisione. Infatti le strategie non saranno di semplice elaborazione né tanto meno dispiegheranno i loro effetti nel breve periodo.
L’esperienza di altri paesi ci fa vedere come alcuni settori sono stati investiti con straordinaria rapidità e virulenza.
Mi riferisco in particolare alla moda e all’arredamento negli Stati Uniti per fare due esempi in settori che interessano anche noi.

Un altro settore nel quale non voglio addentrarmi in questa sede ma che dovremo affrontare in modo specifico è quello del turismo.
Qui ci troviamo di fronte ad un fenomeno che se pur continua a crescere a livello globale sta manifestando sia sul fronte della domanda che dell’offerta profonde trasformazioni.
L’Italia e la Toscana stanno perdendo quote importanti di mercato e non si intravedono ancora strategie in grado di intercettare la nuova domanda che proviene dai paesi in via di sviluppo che si presenta con giovani generazioni portatrici di culture, interessi, stili di vita e gusti molto diversi da quelli con i quali siamo abituati. a confrontarci.
Ho fatto questo cenno al turismo non solo per il peso economico che ha nella nostra realtà ma anche per il ruolo che ha avuto e continua ad avere per la promozione dell’immagine dell’Italia e dei suoi prodotti.


Concludendo voglio rendere espliciti gli impegni che intendiamo assumerci sia a livello politico che amministrativo.
In primo luogo vogliamo unificare i rapporti di settore che finora sono stati richiesti dalla Provincia con diverse finalità per costruire un Osservatorio Annuale teso ad evidenziare i fattori di criticità della realtà economica e sociale del territorio in modo da promuovere le conoscenze necessarie a favorire lo sviluppo di politiche locali mirate ed efficaci.
E’ poi nostra intenzione sostenere tutte le iniziative in atto tese a modernizzare, nel rispetto dei principi di sostenibilità, le infrastrutture materiali e tecnologiche dell’area fiorentina: adeguamento della rete autostradale, completamento della linea ferroviaria ad alta capacità e ristrutturazione del nodo ferroviario fiorentino, adeguamento dell’aeroporto di Firenze e sviluppo di una visione unitaria del sistema aeroportuale toscano, realizzazione del termo-valorizzatore e del parco della piana, integrazione e sviluppo delle società che gestiscono pubblici servizi, e soprattutto il loro sistema di governance da ridefinire a livello territoriale regionale, sostegno alla Fondazione cultura, costruzione di un organico sistema di comunicazione della realtà economica e culturale del territorio provinciale.
Infine riteniamo necessario promuovere l’integrazione tra gli atenei della regione intensificando i rapporti tra università ed istituzioni ponendo al centro della discussione le sfide che la società toscana è chiamata ad affrontare.
Condividiamo la scelta della Regione Toscana di porre lo sviluppo e la competitività del sistema produttivo regionale al centro della sua iniziativa, uno sviluppo che sappia coniugare crescita e giustizia sociale e che ponga l’occupazione, in particolare quella giovanile, come obiettivo non eludibile.
La Regione ha già compiuto scelte concrete a sostegno dell’innovazione, della diffusione delle tecnologie, della cooperazione tra le piccole e medie imprese, azioni che noi valutiamo molto positivamente e che costituiscono per noi un punto di riferimento certo.
Ma di queste iniziative parlerà con la necessaria competenza l’Assessore Brenna, il cui impegno è da noi molto apprezzato, che ringrazio di essere presente ai nostri lavori.

Continueremo nel lavoro di modernizzazione della macchina amministrativa perseguendo miglioramenti nell’efficacia e nell’efficienza dei procedimenti, per rendere, riprendo ancora l’immagine del dottor Montezemolo, “la vita più facile alle imprese”. Sportello Unico, Spic, Appalto per banda larga, Infrastrutturazione immateriale.
Vogliamo infine offrire un primo contributo per sviluppare tra i giovani una cultura di impresa aperta verso i nuovi scenari internazionali attraverso la messa a disposizione di quattro borse di studio per giovani laureati che vogliano fare dei corsi di specializzazione all’estero. In particolare vorremmo proporre due borse per la Cina, una per la Romania, ed una per la Federazione Russa.
Le modalità organizzative, i contenuti e l’entità economica le discuteremo insieme quanto prima, l’unico vincolo che vorremmo introdurre è quello di impegnare i vincitori ad operare per un certo lasso di tempo per un’impresa toscana nei paesi presso i quali sarà svolto il programma di studio.

RINGRAZIAMENTI

1. Alla Scuola di Guerra Aerea e in particolare al Generale Comandante Fabio DEL MEGLIO per l’accoglienza e l’ospitalità, nonché al Maggiore Giuseppe VALENTE per il prezioso aiuto nell’organizzazione del Convegno
2. All’Assessore Regionale Brenna, che concluderà i lavori
3. Al Prof. Alessandro Petretto , al Dr. Stefano Casini Benvenuti e a tutto lo staff dell’IRPET, cui si deve il prezioso e puntuale lavoro di ricerca e di presentazione
4. Al Prof. Paolo Pecile, che ha coordinato tutta la preparazione del convegno
5. Al Comitato organizzatore, ed in particolare al Direttore Bonelli, ai segretari sindacali Gramolati, Fratini e Marchiani e al Direttore CNA Nenci, la cui collaborazione è sempre preziosa e determinante
6. Ai relatori, Professori Mutinelli, Piscitello e Varaldo e al Prof. Zanni, che hanno accettato di misurarsi con questo non facile compito
7. Al Sig, Console della Repubblica Cinese e ai consoli onorari della Romania e della Federazione Russa, la cui presenza ci onora.
8. Ai parlamentari europei Guido Sacconi e Lapo Pistelli.
A tutti voi che con la vostra partecipazione avete reso possibile qu

30/01/2006 13.34
Provincia di Firenze