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Redazione di Met
Giorno della Memoria. Livorno ricorda la piccola Gigliola Finzi
Iniziativa della Comunità di Sant'Egidio e della Comunità Ebraica. Una pietra d'inciampo in via Verdi
La memoria della deportazione degli Ebrei di Livorno diventa “pietra d'inciampo”, spazio condiviso di ricordo, per un futuro liberato dagli orrori del passato. Con un'attenzione particolare al presente, perchè “chi dimentica il proprio passato è condannato a ripeterlo”.

Stamattina, iniziativa della Comunità di Sant’Egidio e della Comunità Ebraica in collaborazione con Diocesi, Comune e Istoreco in ricordo della deportazione dei livornesi
di religione ebraica. Appuntamento alle 11.00 in piazza dei Valdesi. A seguire, in via Verdi 25, l’omaggio a Gigliola Finzi con la posa della stolpersteine a lei dedicata.

Chi era Gigliola Finzi?
La sua è una piccola storia finita tragicamente, a pochi mesi dalla nascita, sulla banchina di un binario morto, all’ingresso del campo di sterminio di Aushwitz alla fine del maggio ‘44.
La famiglia Finzi-Della Riccia abitava a Livorno da molti anni, in via Verdi 25. La mamma, Berta Della Riccia era casalinga e il padre Natale Finzi lavorava in città come commesso.
Il nonno materno Erasmo, impiegato in ufficio al Poligrafico “Salomone Belforte & Co.” in Via della Madonna, è ricordato come un uomo buono e mite, insieme alla moglie Egle Di Veroli.
Tuttavia poco si riesce a ricostruire della loro vita, per esempio di chi era Natale Finzi, dei suoi familiari. Poco si ritrova di una famiglia che pure viveva in città da tanti anni e da tante generazioni, in pieno centro, con tanti contatti. Perchè furono deportati tutti. E nessuno ritorna.

Sappiamo che la famiglia nel ’41 riesce a ottenere la “discriminazione”: le leggi razziali, emanate tre anni prima, non vengono cioè applicate al loro caso.
La “discriminazione” dalle leggi razziali, era prevista in alcuni casi, ad esempio per i cittadini di religione ebraica che avevano combattuto per il Paese durante la prima guerra mondiale oppure gli impiegati nelle tante fabbriche di cui la città e la provincia erano piene, che facevano parte dell’industria di guerra.
In verità, molte discriminazioni furono ottenute pagando molto, troppo, la speranza della propria libertà. Perchè pochissime discriminazioni, come la storia della famiglia di Gigliola dimostra, salvarono davvero gli ebrei dalla deportazione.
Come tutti i regimi totalitari, anche il nazi-fascismo, nonostante la studiata parvenza di amministrazione pubblica, con il suo estenuante uso della burocrazia per ostacolare l’ottenimento e poi negare i diritti civili e sociali, era un regime corrotto.

Erasmo Della Riccia è il primo ad ottenere la discriminazione, nel luglio del ‘41. A novembre riesce a farla avere anche ai suoi, a Berta e Luciana, le figlie e a Natale, e riesce a trovare impiego nelle miniere dell’Amiata grossetana.
In quell’anno infatti, la famiglia non è a Livorno. Si sono trasferiti a Castell’Azzara in provincia di Grosseto, dopo i bombardamenti che nel maggio e a giugno del ‘43 distruggono quasi interamente la città di allora.
A Castell’Azzara sono ospiti della famiglia Contini, in via Dante Alighieri, i quali ricordano la fede profonda di Erasmo e il ricorso incessante alla preghiera di tutta la famiglia, in quel brutto periodo vissuto da loro, dopo lo sfollamento: “la sera pregavano sempre”.

Erasmo e anche Natale trovano lavoro per un periodo alle miniere del Siele; è la prima miniera di mercurio italiana: fondata nel 1865 è di proprietà del commerciante livornese Rosselli.

E’ proprio nei mesi estivi che si scatena una feroce e
aggressiva campagna di stampa contro gli ebrei, parte fino ad
allora della comunità locale: «Ad un certo punto iniziarono a dirci che gli Ebrei erano diversi, che bisognava diffidare di loro – racconta Giuseppe Sargentoni, che da bambino viveva tra l’Amiata e le Colline del Fiora – mentre sino a poco tempo prima erano parte della comunità. Non avevano fatto nulla di male».
Intanto proseguono le requisizioni e I rastrellamenti.
In autunno uno scrupoloso funzionario, Alceo Ercolani, prefetto
di Grosseto. che intende fare carriera mostrando zelo,
sei giorni prima che gli venga ufficialmente chiesto dal
Ministero dell’Interno, allestisce un campo di internamento
per gli ebrei, a Roccatederighi, nell’ala estiva della Villa del Seminario Vescovile.
Il vescovo Galeazzi, figura discussa, firma il contratto di affitto: 7.200 lire mensili, che non vengono saldate per intero, tanto che il prelato reclamerà, a guerra finita, quanto spettante.


Il 30 novembre 1943, tutte le Prefetture italiane ricevono l’ordine di polizia n. 5 secondo cui “ tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in appositi campi
di concentramento”.
Roccatederighi si riempie e davanti alla Villa viene tirato del filo spinato e issato un muro “il muro degli ebrei”, per nascondere alla vista il caseggiato dalla strada sottostante.
Seguono giorni molto difficli: il 2 dicembre, arrivano gli ebrei arrestati a Pitigliano, il giorno seguente quelli di Grosseto e così via, fino a raggiungere nel febbraio ’44 le 64 persone internate, di cui 38 saranno deportate.

Tra il 7 e il 10 dicembre vengono sequestrate altre decine di aziende agricole di proprietari ebrei e vengono nominati dalla Prefettura sequestratatri e curatori connvienti con il Regime. La cosa fa notizia: si tratta di ettari ed ettari di terreno che, in una zona fortemente agricola, a molti fanno gola.

Sui tavolini dei bar, il giornale La Maremma spiega: “questi beni, per ordine superiore, andranno a favorire i sinistrati dai bombardamenti angloamericani […] e il lavoro di ricerca e sequestro delle proprietà di ebrei continua”.

Anche la famiglia Della Riccia subisce il provvedimento, devono presentarsi in Prefettura, dichiarare di essere ebrei discriminati ed essere trasferiti nel più vicino campo di raccolta, Roccatederighi.
I Contini cercano di convincerli a non presentarsi: possono nasconderli, hanno dei poderi isolati nelle campagne vicine, potrebbero stare lì per un periodo o durante i rastrellamenti. Intorno, le colline sono cave, ci sono grotte, possibili nascondigli.
Ma la situazione è diventata complicata e sempre più difficile. Gli ordini di presentarsi si fanno insistenti, pressanti, ci sono rastrellamenti, sequestri di beni, appartamenti, terreni, il territorio è presidiato. Come sfuggire?
Erasmo, Berta che è incinta, Luciana e Natale, alla fine si presentano in Prefettura.
Sono tutti internati a Roccatederighi, tranne Berta che viene portata in ospedale a Roccastrada.
Il 19 febbraio 1944 Berta partorisce Gigliola nel reparto maternità. Subito dopo il parto, viene trasferita a Roccatederighi. A marzo vengono portati a Fossoli e il 16 maggio deportati ad Aushwitz.

Gigliola viene uccisa all’arrivo.
Nonno Erasmo aiutato da Luciana, Berta, con Gigliola in braccio e Natale che le protegge con il suo abbraccio, sono fatti scendere a spintoni ed urla. La bimba piange. Berta non riesce a farla smettere; del resto, sulla banchina ferrroviaria uomini armati davanti a prigionieri inermi, vestiti con lacere divise a strisce, urlano comandi in una lingua incomprensibile.

C’è molta confusione, le famiglie cercano di non essere divise. Spari, calci, spintoni, verso destra o verso sinistra non si sa bene perché. Nonno Erasmo cerca di tenere insieme la sua famiglia ma ci sono i soldati che imprecano e i cani che abbaiano contro i prigionieri.
Un giovane soldato tedesco è infastidito dal pianto della neonata: strappa Gigliola dalle braccia di Berta
e la uccide barbaramente davanti agli occhi dei genitori.
Natale cerca di reagire e viene ucciso a colpi di pistola.
Erasmo, che stanno già portando via, si divincola dalla stretta
dei soldati e viene ucciso anche lui.
Luciana, è avviata in stato di chock all’immatricolazione ma non farà più ritorno.
A raccontare tutto sarà Frida Misul nel suo diario. Anche altri deportati, come Alberto Sed, ricordano l’orrore di quel momento. E’ il 23 maggio 1944.

26/01/2021 14.54
Redazione di Met


 
 


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