Diocesi di Firenze
Diocesi di Firenze. Betori apre l'anno pastorale
L'omelia pronunciata domenica 8 ottobre nella cattedrale di Santa Maria del Fiore. Avvio della seconda fase del Cammino sinodale e mandato agli operatori pastorali
Di seguito il testo dell'omelia proclamata questo pomeriggio in Cattedrale dall'Arcivescovo di Firenze, card. Giuseppe Betori nella celebrazione per l'apertura dell'anno pastorale e l'avvio della seconda fase del Cammino sinodale.
Riferimenti per l'omelia pronunciata dal Card. Betori: Is 5,1-7; Sal 79; Fil 4,6-9; Mt 21,33-43
"L’immagine della vigna percorre le pagine bibliche dal canto del profeta fino alla parabola evangelica attraversando il libro dei Salmi. Le sue vicende servono a svelare il legame che unisce Dio al suo popolo.
A fondamento di questo legame sta un atto d’amore, quello con cui Dio ha dato vita e ha poi accompagnato e cresciuto il popolo, per cui la vigna può ben essere detta «la sua piantagione preferita» (Is 5,7aß), e le parole pronunciate dal profeta possono essere intese, secondo una diversa traduzione del versetto di apertura, «il cantico d’amore [di Dio] per la sua vigna» (Is 5,1aß). All’origine dell’esistenza del popolo, Israele e ora noi, la Chiesa di Cristo, c’è un atto d’amore di Dio. Senza riconoscere questa identità la nostra comunione diventa lo sforzo vano di comporre tanti soggetti tra loro irriducibili, l’illusione che la semplice aggregazione possa sfociare in una vera unità.
È una riflessione che dobbiamo far nostra soprattutto in questo tempo in cui ci è chiesto un Cammino sinodale, per evitare la tentazione di pensare che scopo di esso sia annullare le nostre differenze e ritrovarci in un compromesso che avvilirebbe tutti. Il cammino da fare insieme deve essere teso a far emergere le nostre radici e a proiettarci verso la pienezza della loro forza vitale, essendo consapevoli che all’origine e all’eschaton del nostro cammino c’è il volto e il cuore di Dio, colui che per amore ci ha fatti suoi. Senza questo chiaro orientamento trascendente, senza una cura del rapporto con Dio, e quindi con il suo Spirito, il nostro dialogo diventa chiacchiericcio e il nostro discernimento scade in mistificazione frutto di ricerca di dominio sugli altri.
Il profeta ci ricorda – e questo è tutto il contenuto del suo canto – che l’amore non è un sentimento, ma una prassi virtuosa di corrispondenza fruttuosa all’amore ricevuto. Quali siano i frutti che il Signore si attende possiamo ascoltarlo dalle parole dell’apostolo Paolo: «Fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4,8).
Laddove l’amore non viene accolto per tradursi in frutti di giustizia e di verità esso porta alla desolazione, alla dispersione, al disfacimento della stessa identità: «Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi» (Is 5,7b). Lo scenario che si apre è angosciante, ma può ben essere assunto a delineare il volto intristito di tanti aspetti del nostro tempo: una vigna senza più riparo, pascolo di ogni animale, deserto colmo di rovi e pruni (cfr. Is 5,5-6). Senza Dio, senza l’accoglienza del suo amore, questo è il destino nostro, comunità di fede, e il destino del mondo.
Ne sono segno tragico tutte le guerre che insanguinano la terra, le tante guerre dimenticate, quella che affligge da più di due anni l’Ucraina, fino a quella che si è accesa in Terra Santa, mossa da proditori ed esecrabili atti terroristici e che allontana ancora una volta la speranza di pace per Israele e un futuro di convivenza con il popolo palestinese, in un contesto rispettoso di tutte le religioni abramitiche. Accompagniamo con la preghiera le sofferenze e le vittime, sostenendo le ragioni della speranza.
La parabola narrata da Gesù – indirizzata, si noti bene, a chi gli si oppone e già lo ha minacciato di morte –, riprende l’immagine della vigna ma la rielabora per evidenziare la responsabilità di coloro a cui è stata affidata perché producesse un raccolto. In poche battute viene presentato l’intero corso della storia di Dio con il suo popolo, segnato dal rifiuto dei suoi inviati, i profeti, fino all’ormai prossimo rifiuto del Figlio, a cui viene prospettata la morte. La conclusione della parabola segnala che la vigna, cioè la possibilità della comunione degli uomini con Dio, passerà ad altri vignaioli, fedeli nel produrre frutti da consegnare al padrone della vigna: «A voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti» (Mt 21,43).
L’errore dei primi vignaioli è di ritenersi loro i padroni della vigna e quindi di non dover rendere conto del loro operare. Hanno dimenticato di essere solo servitori nella vigna del loro signore. Tentazione, questa, ricorrente anche nella Chiesa, quasi che l’opera ecclesiale sia qualcosa di nostro e non di Dio, quasi che il progetto apostolico sia qualcosa che nasce dalle nostre menti e dalle nostre mani e non dall’ascolto della parola di Dio. Questo atteggiamento di servizio deve essere di tutti noi, di noi pastori che il Signore ha posto a guida del suo popolo, di quanti nella Chiesa si rendono disponibili alle diverse mansioni nell’ambito dell’annuncio, del culto, della carità, come coloro che oggi ricevono il mandato per assumersi una responsabilità di animazione in questi ambiti nelle loro comunità – e di questo vi ringrazio e per questo vi benedico –, ma è un atteggiamento, quello del servizio, che deve essere proprio di tutti i cristiani, e il Cammino sinodale intende risvegliarlo nella vita personale e comunitaria.
Questo servizio, nella fase del Cammino sinodale che ci apprestiamo ad avviare, assume la forma del discernimento comunitario. Il discernimento non parte da una raccolta di principi da proiettare sui fatti per giudicarlo. Al contrario, come ci ha insegnato Papa Francesco, «la realtà è superiore all’idea» (EvG, 233). Riservare il primato all’idea conduce inevitabilmente a dare forma ideologica al pensiero e alla prassi. E questo non per un motivo di pura ragione, ma essenzialmente di fede: «Questo criterio – ha ricordato ancora il Papa – è legato all’incarnazione della Parola e alla sua messa in pratica: “In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio” (1Gv 4,2). Il criterio di realtà, di una Parola già incarnata e che sempre cerca di incarnarsi, è essenziale all’evangelizzazione» (EvG, 233). La fede cristiana ha un legame necessario con l’incarnazione. Il nostro Dio non sta fuori della storia: il mondo ne mostra i segni della presenza; il suo Figlio si è fatto presente nella carne; lo Spirito anima un corpo storico che è la Chiesa e, nella sua libertà, si fa presente nella storia umana in ogni forma di vero, di bene, di bello. Questo si traduce per noi nel far partire il discernimento dal considerare la storia, personale, della comunità e del mondo, come un luogo di rivelazione, le cui fattezze si colgono nell’incontro con la Parola.
Ma quanto stiamo dicendo ha, nelle parole di Gesù, un riferimento ineludibile, che egli trae dalle Scritture (cfr. Sal 118,22-23), legato alla sua persona: «La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi» (Mt 21,42). Al centro della vigna, a fondamento del popolo di Dio, sta la persona di Gesù, e lui in quanto rifiutato e per questo diventato colui che ci unisce tutti, pietra d’angolo, a cui ci si può unire solo assumendo la sua stessa forma, quella di colui che nel dono di sé diventa vita per gli altri. È lui il criterio decisivo della fede e della storia.
È il mistero della Pasqua la sorgente della nostra comunione e la forma che ci è chiesto di disegnare sulla nostra vita. È nel mistero dell’Eucaristia, fonte e culmine della vita della Chiesa, che noi impariamo a vivere come Cristo perché divenuti una cosa sola con lui.
Alla luce di questi orizzonti di fede prendiamo avvio in questo anno pastorale e, esortati a discernere le vie di Dio per noi suo popolo, apprestiamoci e riconoscerle in ogni fatto di vita in cui è possibile intravedere il volto del Crocifisso risorto.
Lo facciamo volgendo lo sguardo anche alle nostre radici, da riconoscere e a cui dare sempre nuovo vigore, oggi riproposte a noi dalla figura della nostra co-patrona Santa Reparata, di cui ricorre la festa e la cui reliquia abbiamo voluto venerare accanto all’altare della celebrazione. Lei, a cui i nostri antenati vollero accreditare la liberazione dall’incombente distruzione ad opera dei Goti, ci aiuti anche oggi a pensare la nostra missione come una salvezza della città nella sua più vera identità. La nostra santa ci dice che Dio non abbandona il suo popolo e ci invita a uno sguardo di speranza".
Giuseppe card. Betori
09/10/2023 16.49
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