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Diocesi di Firenze
La liturgia in Santa Maria del Fiore nel giorno di Natale
L'omelia del cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo emerito di Firenze
Di seguito il testo dell'omelia che è stata proclamata stamattina in Cattedrale nel giorno di Natale dal card. Giuseppe Betori, Arcivescovo emerito di Firenze.

«E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Le parole poste al vertice del prologo del vangelo di Giovanni, proclamate in questa Messa del Giorno di Natale, sono una più approfondita riflessione teologica dell’annuncio che è risuonato nel vangelo di Luca nella Messa di questa Notte, le parole che gli angeli hanno rivolto ai pastori: «Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,11).
L’annuncio che illumina la storia degli uomini e la lega al mistero di Dio, risuona nel mistero del Natale come sicura sorgente di speranza per la nostra povera umanità. È un annuncio che, nella profezia di Isaia, ci è stato presentato come una “buona notizia”, un Vangelo, un annuncio di salvezza, perché è annuncio di pace, la pace che viene quando Dio regna, quando torna nella città degli uomini per portare consolazione e far rinascere la vita.
Ma a quest’annuncio, nella riflessione dell’evangelista Giovanni, si accompagna un’amara constatazione: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,9-11).
È quanto accadde duemila e più anni fa, nella notte di Betlemme, e continua ad accadere nella storia umana e nel cuore di molti. La venuta di Dio nel mondo costituisce una inevitabile chiamata alla decisione: come accadde in quella notte, in cui i rifiuti di quanti a Maria, Giuseppe e il Bambino che doveva nascere dissero che «per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2,7), si intrecciarono con l’apertura del cuore dei pastori, che, invece, «andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia» (Lc 2,16). Accoglienza e rifiuto di Dio segnano ogni epoca della storia umana e non sono meno presenti oggi. Ma abbiamo coscienza che nessuno basta a sé stesso e che Dio ci è necessario per dare senso alla nostra vita e alla storia di questo mondo?
Quel che segna in modo particolare il nostro tempo nell’opposizione all’accoglienza di Dio è la crescente disaffezione verso la vita. Si fa fatica ad accoglierla, come dicono i dati sulla denatalità sempre in aumento; se ne mette in dubbio il valore in sé nella diffusa cultura giustificativa dell’aborto – che è altra cosa dalle situazioni di fragilità in cui spesso si trova chi vi ricorre, persone da aiutare e non criminalizzare –; la si sottopone a criteri di dignità che la rendono più o meno accettabile fino a pretenderne la fine per sé e per quanti non riteniamo in possesso di un livello di vita adeguato; la lasciamo ai margini della società quando ci si propone nelle forme di una presenza importuna e tale da mettere in crisi la convivenza sociale; più radicalmente, è il sospetto sull’altro come un invasore in ogni caso della mia libertà, concepita come spazio della mia autonomia e delle mie aspirazioni. Per molti non c’è spazio per la vita, quando essa è la vita dell’altro o quando essa non è all’altezza delle attese. Anche oggi non sarebbe facile per il Figlio di Dio trovare un alloggio tra noi.
Non dobbiamo però dimenticare quanti nel nostro tempo condividono la docilità fiduciosa dei pastori e si fanno vicini alla vita che nasce, alla vita nella sofferenza, alla vita dell’altro, ascoltando la voce che, se non risuona nel cielo della notte, è pur sempre presente in quel cielo che è dato a ciascuno e che è il proprio cuore. Tanti sono i gesti di bene attorno a noi: l’affetto dei genitori per i propri figli; l’impegno formativo degli educatori nella scuola e negli altri spazi di crescita delle nuove generazioni; la generosità con cui ci si prende cura di chi è più fragile, magari perché coinvolto nei percorsi delle dipendenze che intossicano adolescenti e giovani; la cura di quanti operano per alleviare le sofferenze dei malati; la dedizione con cui molti si chinano sulle povertà e raggiungono le emarginazioni; il volontariato che cerca di alleviare le pene di detenuti in condizioni non degne dell’essere umano; l’accoglienza di profughi e migranti sradicati da patrie e culture. Potremmo continuare e concludere che anche oggi c’è chi va incontro al Figlio di Dio che viene nel volto dell’altro.
Il problema per collocarci dall’una o dall’altra parte di questo approccio alla vita, sta nel riconoscere i segni della presenza di Dio tra noi. Non era facile scorgerlo nel fragile bimbo nascosto nel grembo di una giovane donna e neppure mentre giaceva nell’umiltà di una mangiatoia. A fare la differenza fu l’apertura del cuore, che permise ai pastori di udire il coro degli angeli, a cui altri rimasero sordi.
Ascoltiamo il coro degli angeli, che oggi ci parlano nelle voci dei bambini, dei vecchi, degli afflitti, dei poveri, dell’altro accanto a noi.
Sono voci, queste, che ci indirizzano oltre noi stessi, verso un oltre che non sia nostro pari, ma sia in grado di innalzarci, di farci uscire dalle nostre mediocrità. Abbiamo bisogno che qualcuno, ci liberi da noi stessi, ci salvi, perché nessuno di noi è in grado di salvare sé stesso. Ma un Salvatore c’è, si chiama Gesù, e, come scrive la lettera agli Ebrei, è lui il dono del Padre, «irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e tutto sostiene con la sua parola potente» (Eb 1,3). Il piccolo bambino di Betlemme è colui che Dio «ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1,2), venuto tra noi per ridare un volto nuovo a questo mondo, a portarci tutti fuori dalla nostra miseria. Un dono, quello di Gesù di cui abbiamo bisogno, per uscire dall’aridità dei nostri giorni, perché lui è il miracolo dell’assoluta gratuità.
Perché da qui comincia il Natale, dal riconoscerci miseri, bisognosi e quindi pronti ad accogliere il dono che è Gesù. Allora potremo far nostre le parole che un poeta, Bertold Brecht, stupendoci, mette sulla bocca dei poveri nella notte di Natale, parole che è bene che tutti facciamo nostre, perché tutti siamo poveri, se non di cose, certamente di fiducia e di speranza, nel gelo dei nostri cuori:
«Oggi siamo seduti, alla vigilia
di Natale, noi, gente misera,
in una gelida stanzetta,
il vento corre fuori, il vento entra.
Vieni, Buon Signore Gesù, da noi, volgi lo sguardo:
perché tu ci sei davvero necessario».

26/12/2024 15.29
Diocesi di Firenze


 
 


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